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lunedì 3 marzo 2014
Gagliato
di Vincenzo Pìtaro
A due passi dalla riviera ionica soveratese e dalle Serre splendide e incontaminate. Dalla collina su cui sorge, Gagliato si affaccia a terrazza sul mitico mare di Ulisse, tanto decantato da Pindaro, dominandone tutto il golfo di Squillace fino a lambire le aride marne di Punta Stilo.
Una vista panoramica davvero incantevole, esaltata da un’aria tersa e luminosa, tipicamente mediterranea. La vegetazione è ricca e multiforme, grazie al suggestivo contrasto marino e, nello stesso tempo, montuoso che avvolge l’intero territorio collinare. C’è un’aria diversa a Gagliato, ora viva, ora ritemprante.
Celebrato anche da eminenti studiosi, il clima di Gagliato (350-400 metri di altitudine) è ideale per chi cerca relax e distensione.
Già i latini definivano questo luogo «Salubri loco situm». Gagliato, infatti, sin da secoli lontanissimi, è sempre stata una località climatica per pochi privilegiati. Basti pensare che, nel 1691, padre Giovanni Fiore da Cropani, nella sua «Calabria Illustrata», esaltava Gagliato per le «buone comodità quanto al vivere, abbondando di molte cose», definendola, peraltro, «terra di gran civiltà, posta in bel sito molto vistoso et in aere molto perfetto».
E il marchese Sanchez de Luna, alla cui famiglia questo marchesato apparteneva fin dal 1627, dopo aver lasciato la vita movimentata di Napoli per rifugiarsi nella quiete di Gagliato, così scriveva: «Per ritrovare me stesso, preferisco ritirarmi nella quiete delle mie terre e quivi immergermi nello studio e nella letteratura dei classici antichi, e di tutto ciò che germoglia dagli alberi eruditi dello Stoa e del Peripato». In effetti il marchese Sanchez de Luna amò sovente ritirarsi fra i suoi possedimenti di Gagliato, presso il mare Ionio, per ritrovare serenità di spirito, diletto e saggezza che molti suoi parigrado concittadini ignoravano. «Qui vivo in grembo all’innocenza», scrisse in una sua pubblicazione. Una meraviglia della natura, insomma. Uno spettacolo da sempre incantevole. Un angolo di Calabria davvero bello, esaltato da tutto ciò che una natura, suggestiva e generosa, ha saputo dispensare a piene mani: la serenità della collina (tra l’argento degli ulivi e il verde degli aranci), la sfida dei monti circostanti, il suono ritmico e scrosciante dell’Ancinale (l’antico fiume Cecino descritto da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia, ai tempi del quale era navigabile o, meglio ancora, il fiume Kaikinos degli antichi Greci dal quale trasse ispirazione anche Omero).
Ed ancora: il riflesso del mare Ionio, lo stupore di inattesi panorami dove i raggi del sole, liberati da ogni impurità, irradiano più luce e calore, rendendo più mite l’atmosfera, più limpido il ciclo e più colorato, con attorno un profumo di fiori (acacia, zagara, mandorlo, ginestra, magnolie, oleandri, ecc.) sempre più inebriante. Nasce cosi il clima salubre di Gagliato, dove la primavera, l’estate, l’autunno e l’inverno hanno sempre la loro tipicità tutta mediterranea.
Da queste parti, dunque, è sempre un’avventura restare a contemplare lo spettacolo della natura e meravigliarsi di quanti altri fiori, che nascono spontaneamente, colorano l’ambiente e di quanti uccelli lo rendano più allegro.
Il turista scoprirà l’amena e romantica bellezza di un paesaggio d’altri tempi. Un paesaggio vario e ricco di fascino, dove i colori si accendono, all’improvviso, come in una scenografia e si spalancano per scoprire l’incantevole orizzonte ionico.
Sarebbe davvero un peccato non poter visitare e conoscere più a fondo questo centro del Catanzarese, autentica testimonianza di una storia e cultura millenaria. Oltre alla zona archeologica, ai ruderi della Grangia Certosina, ci sarebbe da incamminarsi per i suoi artistici vicoli, dove è possibile ammirare i portali di antichi palazzi signorili, il caratteristico balconcino secolare in ferro battuto e... tanti altri grandi tesori architettonici che sicuramente non mancheranno di affascinarvi. Perché questo centro pittoresco conserva, da secoli, un ricco patrimonio ancora tutto da scoprire. Ed è anche per questo motivo che, a Gagliato, l’emozione ogni giorno soffia più forte!
© Vincenzo Pitaro
Calabria Letteraria n. 7, Luglio 1998
Le "Fantasie capricciose" del marchese di Gagliato
di Vincenzo Pitaro
Il 3 marzo 1711 il regio banditore Luigi Moccia dava lettura in Napoli di un bando emanato il 25 febbraio precedente.
Essendo dato alle stampe e pubblicato un libello satirico e sedizioso dal titolo Fantasie capricciose, ad opera di un non ben precisato Ramigdio Glatesecha, si ordinava a chicchessia di non venderlo o ritenerlo, in quanto «s’è riconosciuto che contenga notizie false e temerarie». La pena per i trasgressori sarebbe stata oltremodo severa: l’esilio «et altre pene a discrezione nostra» per le persone di nobile lignaggio; cinque anni di «galea» per i librai e per tutte le persone non nobili.
Che cosa conteneva di tanto scandalistico il libro incriminato per far allarmare le Autorità? E chi era lo sconosciuto autore che si celava sotto lo pseudonimo di Ramigdio Glatesecha?
Per la verità il nome era noto sia al viceré, sia a tutti coloro che da più di un anno avevano letto il libro. Era stato lo stesso autore che, in ultima pagina, aveva rivelato che lo pseudonimo, apparente sul frontespizio, altro non era che l’anagramma del Marchese di Gagliato. L’autore era dunque un nobile; per la qual cosa difficilmente sarebbe stato perseguito, a meno che le colpe non fossero state di una certa gravità.
L’intrepido Marchese di Gagliato era Giovanni Sanchez de Luna, alla cui famiglia questo marchesato apparteneva fin dal 1627, allorché per matrimonio le fu ceduto dai Morano. I Sanchez, che vi incardinarono il titolo di Marchese, furono i soli feudatari che a Gagliato ricoprirono tale titolo nobiliare; fatto salvo un loro diretto discendente, Sanchez de Luna, appunto, che vi incardinò il titolo di Duca.
Stando a quanto vi si legge nelle Fantasie capricciose, Sanchez de Luna non dovette per niente essere un tipo molle e neghittoso, amante solamente dei piaceri mondani e indifferente ad ogni interesse culturale. Tutt’altro. Egli fu un uomo colto, appassionato dei classici latini - specialmente Cicerone e Tacito - con spiccato interesse per la cultura moderna pervasa, in quel tempo, dal razionalismo illuministico. Disdegnò però i deisti definendoli «scemi di senno e allucinati di intelletto».
Sanchez non amò altresì la vita mondana di corte e quella rumorosa della città. Volle decisamente rifuggire dalle mollezze usuali all’aristocrazia del suo tempo; la quale non gli risparmiò lazzi e rimproveri per quelle sue «stramberie» che lo inducevano a menare vita appartata. Per ritrovare se stesso, come andava ripetutamente affermando, preferiva ritirarsi nelle quiete delle terre di Calabria e quivi immergersi nello studio e nella lettura dei classici antichi, e di tutto ciò «che germoglia dagli alberi eruditi del Liceo, dello Stoa e del Peripato».
In effetti, il Marchese Sanchez de Luca amò sovente ritirarsi fra i suoi possedimenti di Gagliato, presso il mare Jonio, per ritrovare serenità di spirito, diletto e saggezza che molti suoi parigrado concittadini ignoravano e disprezzavano. «Qui vivo in grembo all’innocenza», egli scriveva nei suoi Capricci, «ed osservo puntualmente i precetti della morale, aspettando la morte e sospirando i continui infortuni capitatimi in patria».
Affermazioni, queste, che fecero dire a Pasquale Lopez, autore di un saggio critico sul Marchese di Gagliato, che non furono solo la quiete e l’amore dei classici che spinsero il Nostro a lasciare la vita movimentata di Napoli.
Ma, a detta di Lopez, dovettero concorrere non poco, a tale suo divisamento, la serie di peripezie in cui si trovò coinvolto e le vicende storiche che interessarono il Regno. All’inizio del ‘700 ebbe delle liti in pendenza con il Principe di Satriano, Girolamo Ravaschieri, e con il Duca Marincola di Petrizzi, i quali lo avevano accusato di complicità con alcuni briganti calabresi. Altre contrarietà gli vennero procurate dalle vicende storiche più in generale. Difatti aveva riposto molte speranze negli Austriaci, quando vi subentrarono agli Spagnoli.
Fece molto affidamento sull’arciduca Carlo d’Asburgo perché a Napoli ci fosse un futuro migliore, piena giustizia nei confronti di chi «rubava la roba agli innocenti», e maggiore rispetto negli antichi valori. Grande fu la sua delusione quando si avvide che coi nuovi venuti era cambiato il «padrone non già la condizione»!
Ad esasperarlo ancor di più concorsero, infine, la guerra di successione e lo scontento del popolo per le continue vessazioni e gabelle cui veniva fatto oggetto. Fu tutta questa serie di contrarietà che lo convinsero di scrivere «qualcosa» attraverso cui potesse dare sfogo, prima di finire i suoi giorni, a tutto ciò che di amaro gli ribolliva dentro. In questa disposizione di spirito, si risolse a scrivere le Fantasie capricciose: un indice di vizi e di aspetti più deteriori della classe agiata. Ne ebbe per tutti e per tutte le categorie sociali.
I suoi strali iniziarono riprendendo il comportamento licenzioso e permissivo di «certe Dame» fatte per «rovinare i loro rispettivi mariti».
Proseguirono nei confronti del ceto nobiliare che, trascurando l’utile della patria per i propri piaceri, «non ha che un sol occhio per vedere le sue miserie». L’acrimonia che il Sanchez de Luna usò nei confronti dei nobili, alla cui classe egli stesso alla fin fine appartenne, derivò da un suo personale convincimento secondo cui quelli fossero assolutamente insensibili agli sviluppi politici della Nazione. Il Sanchez de Luna fece parte della schiera di quei patrizi illuminati che tanto ebbero a cuore le sorti e le fortune della patria, e più conseguentemente si prodigarono per garantirne un futuro migliore ed un nuovo ordine politico, in cui l’aristocrazia avrebbe dovuto ricoprire un ruolo prioritario. Il pamphlet ebbe come obiettivo appunto questo: scuotere la classe dominante dal secolare torpore, per farla uscire dall’ignoranza, affinché assurgesse alla guida politica e morale della Nazione. I motti satirici non risparmiarono nessuno. Coinvolsero indistintamente clero («migliore sarìa bruciargli in chiesa le mani, ma dalla vostra casa fargli stare sempre lontani»); i medici, «costretti a dar da intendere al vulgo ignorante lucciole per lanterne»; per poi ammassare in un unico fascio, speziali, magistrati, avvocati, fin a coinvolgere l’intera Napoli che definiva «tutta vota di cervello».
Scoperto e ritenuto responsabile della «sediziosa operetta» Sanchez de Luna confessò subito d’esserne l’autore. Per prima cosa fu fatto rinchiudere nel Castel di Sant’Elmo per cautelarlo da qualche malintenzionato, il 14 gennaio 1712. Il successivo 25 febbraio veniva emanata la condanna ed informati quanti ne erano stati oltraggiati di richiederne le opportune riparazioni.
Queste giunsero tempestive con delle formali scuse, chiaramente di circostanza, di Ramigdio Glatesecha che, dopo qualche mese di prigione, fu ricondotto in libertà. Si spense a Napoli il 10 aprile del 1714 ed il giorno dopo fu sepolto, nel sacello di famiglia, nella chiesa dell’Annunziata.
Lo «Jus primae noctis» tra storia e leggenda
La figura di un certo Marchese Sanchez, molto probabilmente un antenato dell’autore delle Fantasie capricciose, è circonfusa da un alone di leggenda che a Gagliato si tramanda di padre in figlio e di generazione in generazione. Si tratta beninteso di leggenda, nel senso che non si hanno riscontri oggettivi nelle documentazioni storiche. Ma avendo tutte le leggende qualche indiscutibile documento storico, vale la pena esporla così come viene narrata dagli anziani di questo centro.
In epoca medievale Gagliato era infeudata ad un certo Marchese Sanchez, al quale le giovinette che intendevano convolare a nozze dovevano pagare il tributo del «jus primae noctis».
La consuetudine si protrasse alquanto nel tempo; senonché giunse in età da prender marito una graziosa fanciulla appartenente alla famiglia di ben precisati Codispoti. Malauguratamente - per il Marchese, s’intende - la promessa sposa aveva quattro robusti fratelli i quali, armati di tutto punto, attesero in casa l’arrivo dei birri che la dovevano prelevare e condurla al Palazzo.
Giunti a destinazione, i tre bravi furono assaliti dai fratelli Codispoti, uccisi e fatti a pezzi. I loro corpi furono esposti nei pressi di Porta San Carlo ad un albero di olivo (che, per l’appunto, ancora oggi porta il nome di «olivara ‘o quartu», a significare i quarti in cui erano stati ridotti quei corpi) spacciandoli per carne macellata di fresco.
Il Marchese, a sua volta braccato dagli animosi fratelli, riuscì a salvarsi nascondendosi in un materasso imbottito di paglia che fu fatto trasportare dai domestici, fuori paese, al sicuro.
Del singolare Marchese non si sa se sia più tornato o meno nei suoi possedimenti, o che fine abbia fatto in seguito a quello episodio.
Di certo si sa che da quel giorno nessun altro feudatario osò più in Gagliato e nei dintorni avanzare richieste di tal genere.
© Vincenzo Pitaro
Quei giorni in cui conobbi Padre Pio
di Grazio Pitaro
Nel dicembre del 1950, approfittando della pausa natalizia, poiché insegnavo, decisi di recarmi nelle Puglie e precisamente a San Giovanni Rotondo in quel di Foggia, presso il convento dei frati cappuccini sul Gargano.
Partii dal mio paese (Gagliato) che era passato da poco Natale, e, dopo un viaggio estenuante, scesi dal treno alla stazione di Foggia; qui noleggiai un taxi che mi condusse a destinazione.
Giunto al convento, una folla si assiepava attorno. Dopo aver dato di sfuggita un'occhiata al grandioso ospedale «Casa Sollievo della Sofferenza» costruito con il contributo dei fedeli di tutto il mondo, e che allora ospitava circa seicento degenti, entrai in chiesa per pregare; quindi mi recai in albergo per prenotare una stanza. A dire il vero, trascorsi una notte insonne subendo i rigori dell'inverno, e, impaziente, ero in attesa che sorgesse l'alba per assistere alla messa di Padre Pio.
Erano le cinque del mattino, e, ancora tra il lusco e il brusco, mi diressi al convento; fui subito in chiesa, la quale era già gremita di fedeli in devoto raccoglimento ed in un contegno edificante.
Padre Pio, dal volto prettamente ieratico, rigato di lacrime e con i segni tangibili della sofferenza, si accinse a celebrare la messa che durò due ore: dalle cinque alle sette. La fronte imperlata di sudore e rigata da solchi profondi, con il viso coperto di grinze. Egli sembra va rapito in estasi; soprattutto al momento della consacrazione della specie eucaristica, e pareva avesse un abboccamento con Dio. Furono momenti di commozione e di riflessione.
Terminata la messa, impartì la benedizione e, provato dalla sofferenza per le stigmate alle mani, al costato ed ai piedi, a stento si avviò in sacrestia ed ivi depose i paramenti sacri. Feci di tutto per avvicinarlo, e fu proprio in sacrestia che ebbi la possibilità, da me tanto agognata, di rivolgergli un'invocazione: «Padre, datemi la santa benedizione prima che io riparta alla volta della Calabria» gli chiesi. Ed Egli, ponendomi una mano sulla spalla: «Dio ti benedica!».
Rimasi un po' esterrefatto, perplesso, perché me lo disse con un tono che io credetti fosse venato di qualche allusione, e mi lambiccai il cervello per carpirne il vero significato. Mi rasserenai però all'istante, poiché intuii subito che Padre Pio volle farmi intendere il suo disappunto per il fatto che non avevo chiesto di confessarmi. Pur consapevole di ciò, dovetti disdire la prenotazione, assalito dalla fretta di ritornare a casa per essere puntuale il 7 gennaio, giorno della riapertura delle scuole.
Lasciai San Giovanni Rotondo, oasi di pace e di serenità di spirito, con l'intenzione di ritornarvi. Anni dopo, ed esattamente nell'agosto del '65, decisi di rivedere Padre Pio, viepiù ispirato da quella fede che animò San Paolo convertitosi sulle vie di Damasco: «Sine fide impossibile est piacere Deo». Intrapresi il viaggio con un caldo asfissiante, sotto la sferza implacabile della canicola e del sole torrido d'agosto. Arrivato che fui a destinazione, stanco dal viaggio, per fortuna trovai una stanza vuota in albergo. Non un alito di vento che potesse smorzare la calura ed apportare un che di refrigerio si udiva dintorno. La mattina, svegliatomi di soprassalto allo squittio indiscreto degli uccelli, mentre una nuvolaccia apparsa improvvisa si accingeva ad offuscare il cielo, ebbi la sensazione di trovarmi in un paradiso terrestre. Mi diressi al convento dove Padre Pio stava celebrando la messa assai per tempo, come di consueto.
Nel pomeriggio riuscii, tramite una persona alquando influente in convento e che ebbi modo di conoscere, ad ottenere un biglietto di prenotazione; la qualcosa mi permise di confessarmi. Dopodiché vincendo autosuggestione ed emotività, effettuai una breve passeggiata nel cortile circostante il convento con alcuni amici colà conosciuti.
Terminata la Santa Messa e ricevuto che ebbi la Comunione, intravedendo Padre Pio che stava per raggiungere la sua cella, mi intrufolai, non si sa come, in un varco inspiegabilmente apertosi fra due ali di folla che si agitava dattorno. Mi fu consentito, così, di conferire con Lui, consegnarGli due lettere e porGli alcune domande le cui risposte mi consolarono. A San Giovanni Rotondo, durante la mia permanenza, vissi momenti di paradiso e di tranquillità intcriore; mi sentii in tutto trasformato nel seguire le messe del Frate del Gargano. Chi ebbe modo di recarsi colà non rimase certamente deluso nel vedere Padre Pio, il grande Taumaturgo dalle stigmate, che sempre affascinò attirando a sé la folla, infondendo negli animi una ineffabile pace interiore. Padre Pio, al secolo Francesco Forgione, nacque a Pietrelcina (BN) nella vecchia casa di vico Storto 27, umile dimora di contadini, alle cinque del matttino del 25 maggio 1887, un mercoledì. Il giorno successivo il padre Grazio, «zi' Grazio», e la madre Maria Giuseppa De Nunzio, si recarono al comune per registrare il neonato.
Al fonte battesimale gli imposero il nome di Francesco. Solo allorquando divenne sacerdote dell'ordine dei minori adottò il nome di Padre Pio da Pietralcina; quest'ultima annotazione fin a qualche tempo fa era obbligatoria aggiungerla al proprio nome, poiché così prescriveva la regola monastica. Quella mattina in cui Francesco Forgione vide la luce, la levatrice Grazia Formichelli sollevandolo per aria esclamò: «Giuseppa, il bimbo è nato in velo bianco ed è un buon segno; egli sarà grande e fortunato». Già d'allora sembrò che lo Spirito Santo avesse voluto dare un segno tangibile dei suoi alti criteri, ponendo sulla bocca di quella umile levatrice un così veritiero vaticinio. Padre Pio ricevette le stigmate il 20 settembre del 1918 mentre nel coro recitava l'Ufficio con gli altri confratelli.
Egli operò un'infinità di miracoli a persone presenti e lontane, tramite la bilocazione ed il suo flusso di asceta. Fu il «burbero benefico» che sotto modi apparentemente scontrosi e bruschi, celò bontà e gentilezza d'animo, avendo avuto per tutti una parola di conforto, di sprone, ma anche di ammonimento. Lenì il dolore di tanti derelitti, diseredati, e terse le loro lacrime. Padre Pio non è morto, come non muoiono i martiri e gli eroi. Per Lui non giunse l'ora del tramonto, ma sorse l'alba dell'eternità. Fu, e continua ad esserlo, sempre una sorgente di acqua viva dove si dissetarono quelli che erano avidi di affetto, di pace spirituale e di verità. Fu un lavacro costante e salutare che purificò radicalmente le coscienze.
Da Lui si recarono uomini illustri, increduli, atei, curiosi, che facendosi scudo della loro megalomania, pensavano di poterla impattare, ma non poterono che arrendersi umiliati e confusi. Dovettero inchinarsi riverenti e timorosi deponendo ai suoi piedi la loro superbia ed il loro scetticismo. Fu, il Nostro, l'intermediario, l'anello di congiunzione tra la terra e il cielo; risolvette casi insperati con guarigioni di malattie ribelli ad ogni terapia. grande dolore per il mondo cattolico. Si spense alle 2,30 del 23 settembre del 1968, mentre invocava flebilmente il nome di Gesù e della Madonna.
Egli ci guidi, ci protegga e ci benedica dal cielo dove si canta eternamente il peana della gloria e dell'amore.
Lasciai per sempre San Giovanni Rotondo con nostalgia, mentre il cielo andava coprendosi di nubi plumbee, con immagini e sensazioni che resteranno scolpite nel mio cuore a caratteri aurei e indelebili.
Considerazioni. Durante il viaggio di ritorno da San Giovanni Rotondo, mentre scendevano le ombre della sera e le brume estive offuscavano l'orizzonte, dopo aver riflettuto a lungo e ricordando, come sempre, la netta differenza tra fumano e il divino, mi venne fatto di pensare che navighiamo in un mare travagliato dalla tempesta ed in cui imperversa la bufera della malignità.
Viviamo in un mondo sconvolto dal male, dall'odio, dalla violenza, dal malcostume, m cui l'ingiustizia tende ad avere piena supremazia ed eccellere, sovrana, sulla dignità umana.
Viene derisa la morale e si allarga viepiù la cerchia della malvagità con il boicottaggio di tutte le iniziative, con cinismo e sadismo.
Il tempo, però, mitigherà i dolori o li fa dimenticare; ristabilirà la verità, riparerà i torti, porrà un freno alla corruzione che contagia, senza tregua ed in modo invadente, gli animi; ridimensionerà i problemi.
«Tempus omnia medetur»: il tempo rimedia a ogni cosa. Ci sono fattori imponderabili, imprevedibili che modificano anche radicalmente lo svolgimento ed i risultati dei nostri progetti.
I sentimenti non prendono ordini e non c'è evento, sia pur minimo, che esca dal regolato ordine dell'universo.
Oggi, come sempre, si misconosce Dio, si mette in gioco la Sua divina esistenza da parte di gente pusillanime e che si pavoneggia di se stessa, cullandosi sugli allori, della sua gloria, della sua giustizia.
«Beati qui credunt et non vident».
Un giorno il Signore Dio scenderà dal ciclo, Giudice supremo e severo con la Sua Croce, testimone oculare delle sofferenze, con quella Croce sulla quale si consumò il più grande dramma della storia e in nome suo a Costantino arrivò la vittoria su Massenzio nella battaglia di Ponte Milvio.
E sarà proprio nel giorno del Giudizio Universale che il Signore Dio pronunzierà il Suo famoso ed inconfutabile verdetto.
Concludendo queste considerazioni, non posso non convenire che la vita quaggiù è una prova, un sillogismo la cui conclusione è il Cielo. Tutto tramonta nell'oblio della terra, nel silenzio dei secoli! Perciò, niente odio né cattiveria, ma bontà, sincerità e schiettezza d'animo, con tutti.
1986 © Copyright by Grazio Pitaro
Il prof. Grazio Pitaro, devoto calabrese che negli Cinquanta ebbe il privilegio di conoscere Padre Pio, racconta in questo saggio i suoi periodici incontri col Frate taumaturgo del Gargano, oggi San Pio da Pietrelcina. «È stata un’affascinante avventura umana», dice. «Furono momenti di commozione e di riflessione. E già d’allora il Frate dimostrava di avere un abboccamento con Dio».
Grazio Pitaro, è nato a Gagliato (CZ) il 5 settembre 1918. Fin da ragazzo ha avuto la vocazione sacerdotale, studiando al Ginnasio e Liceo Classico presso il seminario vescovile di Squillace.
Combattente nella Seconda guerra mondiale, ha partecipato alla campagna di Francia, Grecia e di Albania.
Insegnante (sul finire degli anni Quaranta) in vari centri della Calabria. Nel 1974, periodo in cui si è collocato in pensione, ha ricevuto dal Ministero della Pubblica Istruzione la medaglia d’oro per meriti professionali.
Da sempre, ha continuato a professare vivamente la fede religiosa, mantenendosi vicino alla Chiesa con particolare devozione alla Madonna e una grande considerazione per Padre Pio da Pietrelcina.
Gagliato
di Sharo Gambino
Il paese! Questo male oscuro (ma non troppo), che ti si radica dentro quando sei ragazzo indifeso e quando in gioventù ti spinge, ti esorta, costringe ad allontanartene come da cosa odiosa, di poi, con gli anni, assume toni ed aspetti poetici, si fa nostalgia, dolore, angoscia a volte e tu non aspiri ad altro che a tornarci per restarci dentro in un abbraccio di terra nera odorosa!
Il paese si ama e si odia, ma l'odio raramente è definitivo, aspetta l'occasione per stemperarsi, addolcirsi fino a trasformarsi del tutto e assumere la tinta e la sostanza del suo contrario, com'è di quegli innamorati che finito il bisticcio, chiarito un equivoco che aveva provocato la frattura, tornano ad amare con raddoppiata intensità.
Chi ha dimestichezza con la penna, allora dà testimonianza al paese del sentimento che gli alberga dentro con qualcosa che, quanto meno nelle intenzioni e nella speranza, travalichi il contingente, resti duraturo nel tempo a venire: un libro, che leghi indissolubilmente il nome dell'autore al nome del paese. È una voglia irresistibile di lasciar detto alle generazioni future: anch'io ho vissuto dove ora voi vivete, sono passato tra i vicoli, sostato nelle piazze, ho parlato il vostro dialetto, seguito le vostre usanze, le vostre tradizioni, sono stato uno di voi, sebbene tanti e tanti anni addietro. È voglia, seppur non espressa, seppur ignorata, di non morire del tutto nei riguardi e nei confronti del paese, voglia di assicurarsi almeno un angolino d'immortalità. È voglia, anche, di insegnare qualcosa, tracciar strade per future ricerche, dare indicazioni, svegliare interessi..
Chi sta attento alle novità editoriali, deve annotare come negli ultimi decenni assai più che nel passato i saggi monografici che hanno per soggetto un paese, la sua storia, le sue tradizioni, le sue curiosità, la sua economia, insomma tutta la sua cultura passata e presente, si siano centuplicati e questo non solo e non sempre per merito di gente specializzata, di studiosi per professione e quindi in possesso dei mezzi scientifici necessari, ma per iniziativa di appassionati. È grazie a questi che la storia di un paese riesce a salvarsi e ad essere restituita alla collettività che l'ha espressa vivendola, soffrendola talvolta.
Se ciò avviene non deve essere perché c'è gente disposta o spinta a farlo per guadagnarsi quanto meno la gratitudine del paese o una scheggia di gloria paesana, ma perché è la gente che usufruisce, è la collettività che lo richiede forse per ritrovare un'identità che la modernità, il livellamento della cultura, l'appiattimento dovuto al benessere e alla diffusione dei mass-media, gli sta facendo perdere. Ognuno rivuole l'immagine propria sua, singolare ed unica. Anche per questo si vanno resuscitando tradizioni festaiole e culinarie, le varie «sagre» paesane, che non servono solo per richiamare il turista forestiero, ma anche per riallacciare il presente al passato.
È la volta di Gagliato, il bel paese sul versante Ionico delle Serre Calabre, affacciato su una campagna ampia e ridente al limite col mare greco, lo Jonio mitico; e che già ha avuto una poetica esaltazione nel poemetto dialettale 'I zzippuli di Domenico Vitale, nato a Soverato, ma gagliatese per un'adozione di cui andò sempre, fino alla fine dei suoi ottantasette anni, orgoglioso e fiero come si va fieri dell'amore della vera mamma.
Sharo Gambino
I valori che bisogna far rivivere
di Celestina Leone
Gagliato, è un piccolo paese delle Preserre calabre, dolcemente adagiato su di una collina da cui si gode un panorama che ha dell’incredibile. Una terrazza da cui lo sguardo spazia dalle alture delle Serre al limpido azzurro cangiante del mar Jonio. Le colline che circondano Gagliato, sono coperte dall’argenteo ondeggiare di ulivi secolari, da querce, castagni, arbusti caratteristici della macchia mediterranea, con le diverse varietà di erica, corbezzoli, ginestre che, alternandosi nella fioritura, danno morbide pennellate di colore in primavera e tonalità accese e prorompenti in autunno. L’aria è limpida, gli odori sono particolarmente equilibrati nelle nostre erbe aromatiche, tra cui spicca l’origano, la brezza è leggera quando spira in primavera portando profumi lontani ma conosciuti e per questo già cari. Gli orti e i giardini, la campagna di cui è circondata Gagliato, fan sì che vi sia un’incredibile varietà di uccelli che riempiono l’abitato dei loro cinguettii, in simbiosi con tutto il paese, tanto da scendere a becchettare lungo le strade, sui balconi, sulle terrazze. A Gagliato non si notano gli sconvolgimenti climatici che incutano tanto timore, qui il tempo è scandito daIl’alternarsi delle stagioni. La primavera, con i ciuffi di violette che spuntano spontanee ai bordi e negli angoli delle stradine, le mattinate limpide con un ciclo così chiaro da sembrare inesistente. L’estate, calda e assolata durante il giorno e, al contrario, le notti fresche, che invitano alle confidenze, ai ricordi, ai sogni, cullati dalla dolce melodia degli usignoli. I caldi colori dell’autunno, portano alla memoria le passeggiate alla ricerca di funghi, dei rami carichi di corbezzoli con i colori che variano dal giallo, all’arancione al rosso vivo, da portare a casa facendo a gara a chi trova il ramo più beilo, le castagne che lucide occhieggiano tra le foglie ingiallite dei castagni. Le nevicate invernali, di breve durata, quel tanto che basta da far sembrare il paese un caratteristico paesino di montagna.
Tutto ciò, fa di questo paese un posto di cui ci si innamora, da cui non si vorrebbe mai partire e che una volta lontani, si ricorda con struggente nostalgia. Come tutti i piccoli paesi, anche Gagliato aveva... le sue tradizioni le cui origini si perdono nella memoria dei nostri anziani. Una di queste tradizioni, molto radicata, era la coltivazione del baco da seta. Per tutte le famiglie, grandi e piccole, benestanti e povere, il baco da seta era una fonte di guadagno. La quantità variava da famiglia a famiglia e dipendeva soprattutto dall’estensione del terreno coltivato a gelsi, le cui foglie erano indispensabili per l’alimentazione dei bachi. Ciò era possibile essendo Gagliato per la sua posizione ricco di gelsi. Chi non possedeva gelsi a sufficienza, «comprava gli alberi» ed era libero di sfruttarli fino all’ultima fogliolina. Bisognava recarsi nella vicina Soverato per comprare le uova, vendute ad oncia, grandi come una punta di spillo, che si mettevano a schiudere in una pezzuola di lana al caldo. Si racconta che, talvolta, per farle schiudere più velocemente, molte donne le tenevano in seno, oppure, cosa molto più frequente, sotto le coperte al caldo ai piedi del letto, in entrambi i casi luoghi molto intimi, questo fa capire quanto preziose e in che considerazione fossero tenute. Una volta schiuse, venivano fuori delle minuscole larve con la testolina nera. Si preparavano, a seconda della quantità, delle «tafarle» (ceste basse, di forma ovale o rotonda, fatte con i rametti della ginestra) sulle quali si adagiavano delicatamente i bachi sotto un letto di foglie di gelso. Quando i minuscoli bachi cominciavano a crescere si preparavano delle intelaiature di canne poggianti su dei supporti laterali in modo da sovrapporle e sfruttare al massimo lo spazio occorrente. Solo allora iniziava effettivamente il vero lavoro, e poiché la schiusa avveniva solitamente nel mese di marzo, quando tutta la natura è in fermento e si risveglia, erano le tenere foglioline dei rovi che costituivano la loro prima alimentazione. Successivamente si nutrivano con le foglie di gelso più tenere e sminuzzate, quando ormai il baco era cresciuto, sfrondando i rami di intere piantagioni. Poiché l’alimentazione doveva essere continua, e non si poteva rischiare di rimanere senza le preziose foglie, ci si recava nelle campagne vicine al paese e in particolare nella zona bassa del territorio, lungo il fiume Ancinale, oppure vicino ai ruderi dell’antico convento, zone queste molto ricche di piante di gelso. Erano comitive intere, quasi sempre di sole donne, che partivano, la mattina sul far dell’alba, talvolta recitando il Rosario, chiacchierando allegramente o intonando qualche canzone in voga. Si raccoglievano le foglie e si stipavano nei capienti sacchi di tela di ginestra, fino a riempirli completamente: «A bocca aperta». Venivano così trasportati a casa appoggiati in testa su di una specie di corona fatta con una tela morbida e nello stesso tempo resistente per attutire e sostenere il peso. Da qui l’andatura dritta, quasi regale delle nostre contadine. Ogni abitazione era dotata di una stanza che fungeva da dispensa, una camera fresca in cui tenere le botti di vino, l’olio, i salami, i vasi di terracotta con le olive nere in salamoia sotto peso, le giare con le olive bianche, i vasi di sarde e di alici, i grossi vasi in cui era stipata la carne di maiale sotto sale, le cassapanche con i sacchetti per le castagne e i fichi secchi; in pratica tutte le provviste che ogni famiglia in piccole o grosse quantità provvedeva a fare annualmente. Non bisogna dimenticare che il periodo era quello dei lavori in campagna, e quindi la semina e la cura dei diversi ortaggi per le provviste invernali e la quotidiana alimentazione richiedevano un lavoro incessante , dall’alba al tramonto.
Per non fare appassire quindi le preziose foglie del gelso raccolte, e per averle sempre a disposizione anche quando altre faccende richiamavano la presenza dei componenti la famiglia, in un angolo della suddetta camera si faceva un letto di felci fresche su cui si adagiavano le foglie di gelso ammucchiate e ricoperte con uno spesso strato di altre felci .Era importante fare in modo che i bachi non rimanessero mai senza foglie e poiché l’alimentazione era continua, giorno e notte il sottile rumore provocato dal brucare dei bachi costituiva un dolce sottofondo alle faccende quotidiane. Si alternavano giorni in cui «’u sìricu» mangiava incessantemente a giorni in cui invece dormiva. Fino a quando, raggiunta una certa dimensione, al baco ormai adulto, si rendeva necessario procurare un sostegno su cui salire per tramutarsi in bozzolo. Si andava nella brughiera e si sceglievano i rametti di erica più sottili, alti, ramificati che si sistemavano facendoli restare ben dritti accanto ai bruchi.
Lentamente, con grazia, il baco saliva sui rametti e cominciava a fare fuoriuscire dalla boccuccia il filo di seta fino a formare il bozzolo, avvolgendo il sottilissimo filo attorno ai suo corpo ruotando su stesso. Era uno spettacolo, quasi un miracolo, vedere formarsi, quasi contemporaneamente, questi centinaia e centinaia di bozzoli bianchi in movimento. Quando il bozzolo era completo e tutti avevano completato la loro trasformazione si procedeva alla raccolta degli stessi, il che avveniva quasi contemporaneamente in tutte le case del paese.Bisognava prendere delicatamente i rametti di erica, uno per uno, raccogliere il bozzolo e pulire esternamente la parte di seta non compatta fino a lasciare il bozzolo pulito. Tutti questi rimasugli, insieme ai pezzetti di seta rimasti sui rametti di erica, venivano raccolti e trattenuti dai proprietari che provvedevano a filarla e tessere facendone generalmente delle coperte, che spesso lasciavano della tinta originaria, altre volte provvedevano a farle tingere in vivaci colori. Altri manufatti in seta erano i preziosi grembiulini neri ricamati finemente, il caratteristica copricapo del costume delle nostre «pacchiane», le gonne, ampie e finemente plissettate. Molto spesso, per chi se lo poteva permettere, in seta era il tanto sospirato e atteso vestito da sposa, in finissimo faglia, su cui venivano ricamati dei decori floreali in seta tinta su tinta e rifiniti con precisione e gusto dei particolari da fare invidia ai più famosi stilisti dei nostri giorni. Oltre al vestito da sposa, veniva confezionato, sempre in seta e in tutto simile, il vestito «degli otto giorni», da indossare ad una settimana dal matrimonio per la prima uscita ufficiale della sposa insieme al marito, di solito per fare il giro dei parenti. Vi era però una particolarità: doveva essere rigorosamente tinto in blè. Qualche vestito, ormai ingiallito dal tempo, ha resistito fino ai nostri giorni, con le pieghe irrigidite per il lungo tempo trascorso, ma sempre bello e il pensiero va a quella giovane donna, alla sua trepidazione, alle sue ansie, alle paure, alle speranze. Quando vi era una grossa quantità di bozzoli, c’era bisogno di aiuto e allora la raccolta si trasformava in festa che culminava a fine giornata con un gran pranzo per tutti gli aiutanti. Ogni famiglia sceglieva «le canocchie», i rametti di erica con i bozzoli più belli, da portare in Chiesa quale offerta di ringraziamento. Quando tutti in paese avevano pronto il loro prezioso raccolto arrivavano i compratori. (i cosiddetti «cucuddari») che giravano di casa in casa a raccogliere i bozzoli, che i proprietari provvedevano a sistemare su delle grandi tovaglie. Compratori che venivano molto spesso da Catanzaro, dove vi erano numerose filande, da Crotone, dalla Puglia, ed avevano una caratteristica, erano tutti vestiti di bianco. Si procedeva alla pesatura dei bozzoli ed ogni famiglia incassava il suo piccolo o grande gruzzolo.
Dov’è l’operosità, l’ingegno, l’inventiva dei tempi passati, siamo o non siamo i discendenti di questa gente che ha dato lustro e conoscenza al nostro paese? Oggi si pensa al facile guadagno senza sacrifici al «dio denaro» che ci permette di avere tutte le comodità che un certo tipo di propaganda reputa necessario. Abbiamo perso di vista i veri valori della vita, le vere piccole gioie che danno pace all’anima. Hemingway scriveva che «ogni uomo è un’isola». E forse è proprio questo il vero dramma degli uomini del nostro tempo, il non saper riconoscere che ognuno di noi ha bisogno dell’altro per vivere con equilibrio, in pace con se stessi e con il mondo che ci circonda. È una priorità fare rivivere quel mondo di valori che abbiamo perso ma che è ancora possibile recuperare pensando al passato, al lavoro operoso di chi ci ha preceduto e che proprio con quel lavoro ci ha permesso di vivere negli agi e comodità dei nostri giorni. Il lavoro onesto, la collaborazione reciproca, pen Leone sando che l’interesse del singolo è l’interesse dell’intera comunità. Sono questi i valori che dobbiamo far rivivere per poter affrontare con spirito nuovo il nostro avvenire e l’avvenire dell’intera umanità.
Celestina Leone