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lunedì 3 marzo 2014

I valori che bisogna far rivivere

di Celestina Leone

Gagliato, è un piccolo paese delle Preserre calabre, dolcemente adagiato su di una collina da cui si gode un panorama che ha dell’incredibile. Una terrazza da cui lo sguardo spazia dalle alture delle Serre al limpido azzurro cangiante del mar Jonio. Le colline che circondano Gagliato, sono coperte dall’argenteo ondeggiare di ulivi secolari, da querce, castagni, arbusti caratteristici della macchia mediterranea, con le diverse varietà di erica, corbezzoli, ginestre che, alternandosi nella fioritura, danno morbide pennellate di colore in primavera e tonalità accese e prorompenti in autunno. L’aria è limpida, gli odori sono particolarmente equilibrati nelle nostre erbe aromatiche, tra cui spicca l’origano, la brezza è leggera quando spira in primavera portando profumi lontani ma conosciuti e per questo già cari. Gli orti e i giardini, la campagna di cui è circondata Gagliato, fan sì che vi sia un’incredibile varietà di uccelli che riempiono l’abitato dei loro cinguettii, in simbiosi con tutto il paese, tanto da scendere a becchettare lungo le strade, sui balconi, sulle terrazze. A Gagliato non si notano gli sconvolgimenti climatici che incutano tanto timore, qui il tempo è scandito daIl’alternarsi delle stagioni. La primavera, con i ciuffi di violette che spuntano spontanee ai bordi e negli angoli delle stradine, le mattinate limpide con un ciclo così chiaro da sembrare inesistente. L’estate, calda e assolata durante il giorno e, al contrario, le notti fresche, che invitano alle confidenze, ai ricordi, ai sogni, cullati dalla dolce melodia degli usignoli. I caldi colori dell’autunno, portano alla memoria le passeggiate alla ricerca di funghi, dei rami carichi di corbezzoli con i colori che variano dal giallo, all’arancione al rosso vivo, da portare a casa facendo a gara a chi trova il ramo più beilo, le castagne che lucide occhieggiano tra le foglie ingiallite dei castagni. Le nevicate invernali, di breve durata, quel tanto che basta da far sembrare il paese un caratteristico paesino di montagna.
Tutto ciò, fa di questo paese un posto di cui ci si innamora, da cui non si vorrebbe mai partire e che una volta lontani, si ricorda con struggente nostalgia. Come tutti i piccoli paesi, anche Gagliato aveva... le sue tradizioni le cui origini si perdono nella memoria dei nostri anziani. Una di queste tradizioni, molto radicata, era la coltivazione del baco da seta. Per tutte le famiglie, grandi e piccole, benestanti e povere, il baco da seta era una fonte di guadagno. La quantità variava da famiglia a famiglia e dipendeva soprattutto dall’estensione del terreno coltivato a gelsi, le cui foglie erano indispensabili per l’alimentazione dei bachi. Ciò era possibile essendo Gagliato per la sua posizione ricco di gelsi. Chi non possedeva gelsi a sufficienza, «comprava gli alberi» ed era libero di sfruttarli fino all’ultima fogliolina. Bisognava recarsi nella vicina Soverato per comprare le uova, vendute ad oncia, grandi come una punta di spillo, che si mettevano a schiudere in una pezzuola di lana al caldo. Si racconta che, talvolta, per farle schiudere più velocemente, molte donne le tenevano in seno, oppure, cosa molto più frequente, sotto le coperte al caldo ai piedi del letto, in entrambi i casi luoghi molto intimi, questo fa capire quanto preziose e in che considerazione fossero tenute. Una volta schiuse, venivano fuori delle minuscole larve con la testolina nera. Si preparavano, a seconda della quantità, delle «tafarle» (ceste basse, di forma ovale o rotonda, fatte con i rametti della ginestra) sulle quali si adagiavano delicatamente i bachi sotto un letto di foglie di gelso. Quando i minuscoli bachi cominciavano a crescere si preparavano delle intelaiature di canne poggianti su dei supporti laterali in modo da sovrapporle e sfruttare al massimo lo spazio occorrente. Solo allora iniziava effettivamente il vero lavoro, e poiché la schiusa avveniva solitamente nel mese di marzo, quando tutta la natura è in fermento e si risveglia, erano le tenere foglioline dei rovi che costituivano la loro prima alimentazione. Successivamente si nutrivano con le foglie di gelso più tenere e sminuzzate, quando ormai il baco era cresciuto, sfrondando i rami di intere piantagioni. Poiché l’alimentazione doveva essere continua, e non si poteva rischiare di rimanere senza le preziose foglie, ci si recava nelle campagne vicine al paese e in particolare nella zona bassa del territorio, lungo il fiume Ancinale, oppure vicino ai ruderi dell’antico convento, zone queste molto ricche di piante di gelso. Erano comitive intere, quasi sempre di sole donne, che partivano, la mattina sul far dell’alba, talvolta recitando il Rosario, chiacchierando allegramente o intonando qualche canzone in voga. Si raccoglievano le foglie e si stipavano nei capienti sacchi di tela di ginestra, fino a riempirli completamente: «A bocca aperta». Venivano così trasportati a casa appoggiati in testa su di una specie di corona fatta con una tela morbida e nello stesso tempo resistente per attutire e sostenere il peso. Da qui l’andatura dritta, quasi regale delle nostre contadine. Ogni abitazione era dotata di una stanza che fungeva da dispensa, una camera fresca in cui tenere le botti di vino, l’olio, i salami, i vasi di terracotta con le olive nere in salamoia sotto peso, le giare con le olive bianche, i vasi di sarde e di alici, i grossi vasi in cui era stipata la carne di maiale sotto sale, le cassapanche con i sacchetti per le castagne e i fichi secchi; in pratica tutte le provviste che ogni famiglia in piccole o grosse quantità provvedeva a fare annualmente. Non bisogna dimenticare che il periodo era quello dei lavori in campagna,  e quindi la semina e la cura dei diversi ortaggi per le provviste invernali e la quotidiana alimentazione richiedevano un lavoro incessante , dall’alba al tramonto.
Per non fare appassire quindi le preziose foglie del gelso raccolte, e per averle sempre a disposizione anche quando altre faccende richiamavano la presenza dei componenti la famiglia, in un angolo della suddetta camera si faceva un letto di felci fresche su cui si adagiavano le foglie di gelso ammucchiate e ricoperte con uno spesso strato di altre felci .Era importante fare in modo che i bachi non rimanessero mai senza foglie e poiché l’alimentazione era continua, giorno e notte il sottile rumore provocato dal brucare dei bachi costituiva un dolce sottofondo alle faccende quotidiane. Si alternavano giorni in cui «’u sìricu» mangiava incessantemente a giorni in cui invece dormiva. Fino a quando, raggiunta una certa dimensione, al baco ormai adulto, si rendeva necessario procurare un sostegno   su cui salire per tramutarsi in bozzolo. Si andava nella brughiera e si sceglievano i rametti di erica più sottili, alti, ramificati che si sistemavano facendoli restare ben dritti accanto ai bruchi.
Lentamente, con grazia, il baco saliva sui rametti e cominciava a fare fuoriuscire dalla boccuccia il filo di seta fino a formare il bozzolo, avvolgendo il sottilissimo filo attorno ai suo corpo ruotando su stesso. Era uno spettacolo, quasi un miracolo, vedere formarsi, quasi contemporaneamente, questi centinaia e centinaia di bozzoli bianchi in movimento. Quando il bozzolo era completo e tutti avevano completato la loro trasformazione si procedeva alla raccolta degli stessi, il che avveniva quasi contemporaneamente in tutte le case del paese.Bisognava prendere delicatamente i rametti di erica, uno per uno, raccogliere il bozzolo e pulire esternamente la parte di seta non compatta fino a lasciare il bozzolo pulito. Tutti questi rimasugli, insieme ai pezzetti di seta rimasti sui rametti di erica, venivano raccolti e trattenuti dai proprietari che provvedevano a filarla e tessere facendone generalmente delle coperte, che spesso lasciavano della tinta originaria, altre volte provvedevano a farle tingere in vivaci colori. Altri manufatti in seta erano i preziosi grembiulini neri ricamati finemente, il caratteristica copricapo del costume delle nostre «pacchiane»,   le   gonne, ampie e finemente plissettate. Molto spesso, per chi se lo poteva permettere, in seta era il tanto sospirato e atteso vestito da sposa, in finissimo faglia, su cui venivano ricamati dei decori floreali in seta tinta su tinta e rifiniti con precisione e gusto dei particolari da fare invidia ai più famosi stilisti dei nostri giorni. Oltre al vestito da sposa, veniva confezionato, sempre in seta e in tutto simile, il vestito «degli otto giorni», da indossare ad una settimana dal matrimonio per la prima uscita ufficiale della sposa insieme al marito, di solito per fare il giro dei parenti. Vi era però una particolarità: doveva essere rigorosamente tinto in blè. Qualche vestito, ormai ingiallito dal tempo, ha resistito fino ai nostri giorni,  con le pieghe irrigidite per il lungo tempo trascorso, ma sempre bello e il pensiero va a quella giovane donna, alla  sua trepidazione, alle sue ansie, alle paure, alle speranze. Quando vi era una grossa quantità di bozzoli, c’era bisogno di aiuto e allora la raccolta si trasformava in festa che culminava a fine giornata con un gran pranzo per tutti gli aiutanti. Ogni famiglia sceglieva «le canocchie», i rametti di erica con i bozzoli più belli, da portare in Chiesa quale offerta di ringraziamento. Quando tutti in paese avevano pronto il loro prezioso raccolto arrivavano i compratori. (i cosiddetti «cucuddari») che giravano di casa in casa a raccogliere i bozzoli, che i proprietari provvedevano a sistemare su delle grandi tovaglie. Compratori che venivano molto spesso da Catanzaro, dove vi erano numerose filande, da Crotone, dalla Puglia, ed avevano una caratteristica, erano tutti vestiti di bianco. Si procedeva alla pesatura dei bozzoli ed ogni famiglia incassava il suo piccolo o grande gruzzolo.
Dov’è l’operosità, l’ingegno, l’inventiva dei tempi passati, siamo o non siamo i discendenti di questa gente che ha dato lustro e conoscenza al nostro paese? Oggi si pensa al facile guadagno senza sacrifici al «dio denaro» che ci permette di avere tutte le comodità che un certo tipo di propaganda reputa necessario. Abbiamo perso di vista i veri valori della vita, le vere piccole gioie che danno pace all’anima. Hemingway scriveva che «ogni uomo è un’isola». E forse è proprio questo il vero dramma degli uomini del nostro tempo, il non saper riconoscere che ognuno di noi ha bisogno dell’altro per vivere con equilibrio, in pace con se stessi e con il mondo che ci circonda. È una priorità fare rivivere quel mondo di valori che abbiamo perso ma che è ancora possibile recuperare pensando al passato, al lavoro operoso di chi ci ha preceduto e che proprio con quel lavoro ci ha permesso di vivere negli agi e comodità dei nostri giorni. Il lavoro onesto, la collaborazione reciproca, pen Leone sando che l’interesse del singolo è l’interesse dell’intera comunità. Sono questi i valori che dobbiamo far rivivere per poter affrontare con spirito nuovo il nostro avvenire e l’avvenire dell’intera umanità.
Celestina Leone

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